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Merluzzo: due pesci in uno

merluzzo essiccato

La differenza tra baccalà e stoccafisso è ormai nota a tutti i gourmet ed è costituita dalla tipologia di lavorazione utile a favorire la conservazione del pesce ovvero salagione nel caso del baccalà e essiccazione in quello dello stoccafisso. La materia prima, invece , è la stessa ovvero il merluzzo o Valentine’s fish, “il pesce di San Valentino”. Questo simpatico appellativo deriva dal fatto che ogni anno 400 milioni di merluzzi migrano dal mare di Barents per deporre le uova, in febbraio, al largo delle isole Lofoten, nell’estremo nord della Norvegia.

L’essiccazione si protrae da febbraio a giugno, quando il gelo si ritira lasciando il posto a un vento freddo e asciutto che favorisce l’essiccazione. La lavorazione prevede che i pesci di taglia simile siano legati a coppie per la coda e appesi a su grosse rastrelliere vicine al mare. Dopo circa tre mesi, il selezionatore (il vraker) suddivide lo stoccafisso in più di 20 classi di qualità, secondo specifici parametri, come lunghezza, grandezza, peso, magrezza, polposità, qualità dell’essiccazione. Se per lo stoccafisso a giocare un ruolo cruciale sono vento e sole, per il baccalà si basa tutto su di un processo di salagione lungo tre settimane che porterà il merluzzo ad assorbire sale per una proporzione del 18% rispetto al proprio peso.

Da pochi anni – ed è una novità arrivata in Italia lo scorso anno – dallo skrei (merluzzo in norvegese) ricavano anche una bottarga. La produzione di quest’ultima avviene nella stagione più fredda dell’anno, quando il merluzzo atlantico si avvicina alla costa delle isole Lofoten per deporre le uova. Le baffe  (sacche ovariche) del merluzzo sono raccolte, lavate delle impurità e salate per poi essere trasportate in un altro punto del fiordo dove sono appese alle strutture di essiccazione solitamente usate per il merluzzo e lasciate maturare all’aria aperta per alcuni mesi.

La fortuna  del merluzzo, divenuto uno dei primi e più importanti pesci di conserva commercializzati lungo le rotte oceaniche, si deve soprattutto ai Paesi che lo hanno inserito con successo nella loro gastronomia. In questo Italia e Portogallo hanno un ruolo di primo piano.

Fin dal  XVI secolo i portoghesi hanno fatto propria l’usanza di pescare il merluzzo bianco nelle acque del Nord Atlantico e conservarlo sotto sale per renderlo disponibile più a lungo possibile. Attualmente il consumo di baccalà è di circa venticinque chili pro capite e si contano ben 366 ricette che lo utilizzano come materia prima. Tra queste si annoverano le frittelle di baccalà (pasteis de bacalhau), il bacalhau à Gomes de Sà (dedicato a un commerciante di Oporto) e il bacalhau á bráz (alla brace). In Italia la patria del merluzzo è sicuramente il Veneto, dove però si registra un’inversione di nomi: qui chiamano baccalà quello che è in realtà stoccafisso. Leggenda vuole che questa tradizione sia arrivata in Veneto grazie al comandante Piero Querini, naufrago alle isole Lofoten. Tratto in salvo dai locali, imparò presto ad apprezzare questo pesce essiccato duro come un bacco (da qui baccalà) che volle portare con sé al suo ritorno. I primi 60 stoccafissi portati nella Serenissima andarono a ruba e questo diede il via a un florido commercio che dura ancora oggi. La ricetta più celebre? Il mitico baccalà alla vicentina. Anche in Liguria, però, il baccalà (che qui torna a chiamarsi correttamente stoccafisso) è un protagonista tra i fornelli: dalle frittelle di baccalà, allo stoccafisso accomodato, fino al brandacujun. Quest’ultimo è un baccalà mantecato con le patate, tipico della riviera di Ponente. Il segreto è nell’utilizzo dell’olio extravergine da olive taggiasche,  mentre il nome deriva dal gesto di brandare, ossia scuotere nel mortaio lo stoccafisso, fino ad ottenere la giusta consistenza.

Paolo Massobrio

 

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