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Il fenomeno delle birre crafty: industriali travestite da artigianali

birre crafty pseudoartigianali

Le birre “crafty” (o pseudoartigianali) sono detestate dagli amanti della birra, quella vera, perché sono prodotti camuffati, bevande industriali che il potente marketing dei colossi produttori definisce usando il linguaggio degli autentici appassionati di birra.

Abbiamo chiesto a Davide Zingarelli del birrificio Soralamà di darci il punto di vista di chi, da questa pratica dei grandi marchi, è in qualche modo “colpito”.

E’ un fenomeno che ci si deve aspettare. E’ ovvio che chi ha un grosso portafogli si butti in uno spazio commerciale con potenzialità. Certo, per i piccoli come noi, che ogni giorno fanno esperimenti per migliorarsi poco alla volta e ottenere buoni prodotti, usando tutte le energie, l’unica arma a disposizione è il confronto: quando si assaggia uno di quelle birre crafty e la si confronta con una birra delle nostre… beh, la differenza è talmente evidente che non c’è bisogno di aggiungere altro, per fortuna. Ma è chiaro che le industrie hanno un passo del tutto diverso dal nostro: in questo senso è un po’ un “altro sport”.

Volendo guardare il bicchiere (di birra) mezzo pieno, possiamo affermare che se i grandi produttori “invadono” il campo dei microbirrifici, allora la strada dell’artigianalità è quella giusta, quella che ha un futuro davanti?

Sì, di sicuro nel mondo ci sono tante prove della validità del modello artigianale. Negli Stati Uniti le birre artigianali hanno raggiunto il 10% del mercato interno e la crescita nell’ultimo anno è stata del 4%. Il problema è che il pubblico finale, quello che sa distinguere tra birra artigianale e birra industriale, è ancora una minoranza. Quindi le birre crafty hanno ancora molto spazio.

Negli ultimi tempi, alcuni colossi industriali hanno spinto molto su campagne di marketing nel segno dell’artigianalità, puntando sui “luppoli” o sulla “regionalità”. Sono questi i nemici della birra artigianale?

Ma no, non li considero nemici. E’ solo un universo del tutto alieno dal nostro. Quello è l’emblema di ciò che non siamo noi: si tratta di una scritta sull’etichetta, la nostra birra invece è sostanza, è frutto di un lavoro costante di ricerca e talvolta anche di spesa (se per esempio sperimentiamo un luppolo nuovo e costoso). Non abbiamo nulla a che fare gli uni con gli altri, insomma.

A volte, anche nei migliori ristoranti capita di avere brutte sorprese per quanto riguarda la birra, come per esempio il vanto, sul menù, di offrire birre fatte con “mais italiano”. Il cliente ignaro magari non lo sa, ma il mais è un ingrediente scadente, usato per abbassare i costi nella produzione industriale. C’è ancora tanto lavoro culturale da fare?

Sì, gli imprenditori della ristorazione spesso non hanno ancora capito che il “beverage” dovrebbe essere alla stessa altezza del “food”. L’attenzione è sempre troppo sbilanciata sul prezzo d’acquisto e non sul potere di vendita. L’errore è doppio perché da un lato un prodotto più costoso, ma all’altezza, permette guadagni più alti nel medio-lungo periodo; dall’altro la qualità tra cibo e bevande deve essere equilibrata, allo stesso livello!

Avete provato queste birre, magari a Expo, visto che una marca famosa ha lanciato la sua campagna sulle birre regionali proprio in concomitanza con l’apertura dell’Esposizione Universale? Cosa ne pensate?

 

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