Luppolo: gli usi alternativi all’impiego nella birra
- Redazione Artigiano in Fiera
- 9 anni fa
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Il luppolo è conosciuto quasi esclusivamente come ingrediente della birra di cui è elemento essenziale, sia per il suo potere amaricante, che per le sue proprietà aromatiche. Il suo impiego da parte dei birrai risale al medioevo e la menzione che si è meritato nella celebre legge sulla purezza della birra bavarese del 1516 certifica la nobiltà di questo vegetale.
La pianta del luppolo, Humulus lupulus secondo la dicitura linneana, cresce spontanea vicino all’acqua in pianura e collina e si comporta da classico infestante, attorcigliandosi su siepi e cespugli. E’ molto diffusa nell’Italia centro-settentrionale. E’ “parente” della canapa e nel periodo primaverile, tra marzo e maggio, produce cime con infiorescenze molto vistose.
La parte commestibile del luppolo selvatico è il segmento finale dei rami, quello che presenta i germogli apicali. Gli ultimi quindici o venti centimetri sono teneri e facilmente cucinabili. Più sono voluminosi più sono buoni. La lunghezza del rametto che normalmente si taglia e la conformazione dei germogli fanno assomigliare molto il luppolo all’asparago, motivo per cui le cime di luppolo sono anche chiamate, in maniera “apocrifa”, asparagi selvatici.
I germogli di luppolo hanno sapore tendente all’amaro (non poteva essere altrimenti per l’ingrediente che rende tipicamente amara la birra) e le loro proprietà spaziano ad ampio spettro: purificanti epatiche, lassative e diuretiche, nonché blandamente sedative. Può fungere da debole sonnifero.
Le principali ricette che prevedono l’uso di germogli sono identiche a quelle che impiegano gli asparagi, quindi risotti, frittate, minestre, ma pure insalate o semplicemente cime bollite e poi condite con olio e sale (e aceto o limone per chi gradisce).
Nelle regioni del nord Italia il luppolo selvatico è un cibo primaverile tradizionalmente consumato con il riso; in Veneto, regione regina nel consumo di “asparagi selvatici”, le cime sono chiamate “bruscandoli” e vantano un’illustre citazione foscoliana nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
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