Piadina romagnola: una questione d’origine
- Redazione Artigiano in Fiera
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Sono passati 4 anni da quando la domanda per la registrazione come Igp della piadina romagnola è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea. Da allora non si sono placate le polemiche, in due direzioni: la prima era stata l’allargamento della tutela anche ai prodotti industriali (e questa è rimasta) mentre la seconda era stata quella legata all’origine, che è stata risolta dalla recente sentenza. Oggi quindi l’Igp comprende da un lato la piada tipica romagnola, più piccola e più spessa (meno di 15 centimetri di diametro e dai 3 agli 8 millimetri di spessore), di solito prodotta artigianalmente dai chioschi e la piadina di Rimini più larga e sottile, con un diametro che può variare tra i 22 e i 35 centimetri e uno spessore massimo di 3 millimetri. Potrà essere inserita la dicitura “lavorazione manuale tradizionale” nel caso di un processo produttivo che comprenda la realizzazione manuale di almeno tre fasi e in assenza di confezionamento chiuso.
Piadina romagnola: la storia
A restare ben salda è l’origine di questo prodotto che, come rilevato anche in sede europea, deriva da una storia millenaria, che inizia nel Mediterraneo più profondo e approda nella Rimini felliniana. Tutto inizia dall’ambiente mediterraneo dove già secoli prima di Cristo era consuetudine consumare dischi di pasta cotti sul testo o sotto la cenere, al termine della cottura nei forni. Era un cibo povero, spesso impastato utilizzando i residui di altre lavorazioni. Tra le tante suggestive ipotesi fatte sulla sua nascita va citata quella del Pascoli che la faceva discendere direttamente dalla mensa citata già nell’Eneide: quest’ultima era un disco di pane usato come piatto dai patrizi romani che al termine dei banchetti lo donavano ai clientes. Per trovare la prima citazione del termine “Piada” bisogna attendere il XIV secolo quando un documento la cita come tributo da versare alla camera Apostolica. Anche in questo caso non si può pensare a una piada come la intendiamo oggi. Del resto il termine piada, come sostiene lo storico Piero Meldini, per secoli ha indicato una serie di preparazioni differenti: “schiacciate e focacce di cereali: lievitate o azzime, condite o scondite, cotte nel forno, in padella, sul testo, sulla graticola o sotto la cenere, di grano o di qualsiasi altra cosa: cereali inferiori, tritello, castagne, ceci, fave, fagioli, cicerchie, veccie e in caso di estrema necessità, ghiande, crusca e perfino segatura”.
Per molto tempo, almeno fino a metà Ottocento, la piada è stata il cibo delle classi popolari, da consumare quando il pane scarseggiava. A dimostrarlo la scarsità di testimonianze scritte su questo cibo, tenuto quasi nascosto in casa e rilanciato solo dalla diffusione del formentone (ovvero il mais). Ai romagnoli la polenta non è mai piaciuta più di tanto: ecco allora la necessità di inventare una sorta di tortillas, la piada. Lo conferma l’Inchiesta Jacini prima, seguita dalle indagini successive: l’alimentazione dei contadini romagnoli, in particolare del riminese, era costituita per lo più da “polenta sotto forma di piadina”. Accanto a queste piade, esistevano quelle di farina di frumento, impastate anche con zucchero e uova: sono quelle consumate dal Pascoli e che diventeranno modello per la piadina che nel secondo Dopoguerra si espanderà a macchia d’olio in tutta la riviera. Nel 1959 nasce vicino a Forlì “la piadina romagnola di Loriana” la prima impresa dedicata alla piadina. Da quel momento in tutta la Romagna sarà un fiorire di chioschi e imprese dedicate a questo alimento di acqua, farina, strutto e sale che vanta un giro d’affari di 130 milioni di euro ed è in continua ascesa.
foto | Flickr
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