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La rinascita del Vermouth

vermouthNei bar di tutto il mondo, è uno dei prodotti che si identifica con l’Italia. È Il vermouth, e non ce ne vogliano i francesi, anche loro produttori di questa tipologia di vino fortificato. Ma il nostro è iconico, quasi mitico. E dopo anni di oblio, è ritornato prepotentemente di moda. Basta un dato: nel 2010 i produttori in Italia si contavano sulle dita di una mano, oggi è difficile catalogarle, ma sono quasi un centinaio.

È una tendenza che ha riportato in vita marchi storici, affiancati da piccole nuove produzioni, all’insegna di una grande qualità. E che ha portato alla creazione dell’Istituto del Vermouth di Torino, che ha lo scopo di valorizzare, promuovere ed elevare la qualità di questa eccellenza italiana nel mondo.

Vermouth: le origini

Oggi lo troviamo nel mercato soprattutto in tre versioni: bianco, dry (o extra dry) e rosso. Esiste anche la versione rosé, ma è praticamente introvabile. Quel che non tutti sanno è che, bianco o rosso, il vino di partenza è sempre bianco: oggi soprattutto Trebbiano, un tempo Moscato.

Fino al 1912 ne esisteva una sola tipologia, di un bel colore dorato carico, tendente all’ambrato. Fu Gancia a lanciare la versione bianca, caratterizzata dalla presenza di petali di rosa e fiori di sambuco, pensata per un pubblico femminile. Negli anni successivi, per differenziarsi, il vermouth dorato si scurisce fino a diventare rosso, più amaro e complesso, contraddistinto da spezie scure, legni e cortecce.

La storia del vermouth affonda le radici nei secoli. Basti pensare ai vini ippocratici, ossia conciati e addizionati di erbe, frutti e spezie, utilizzati a fini medicamentosi. Nel medioevo, Arnaldo da Villanova detto il Catalano fortifica (rinforza con alcol) per la prima volta il Moscato, probabilmente per motivi liturgici, ovvero per allungare la vita del vino da messa.

È sul finire del XVIII secolo che il vermouth entra nell’epoca moderna. Succede a Torino, grazie ad Antonio Benedetto Carpano, garzone di bottega della liquoreria rivendita vino Marendazzo in piazza Castello.

Fu subito successo, tanto che il locale venne convertito in un bar aperto 24 ore su 24, per soddisfare le richieste dei clienti. L’abitudine era quella di gustarsi un buon vermouth con qualche cubetto di ghiaccio, magari una splash di soda, e una fettina di limone a guarnizione.

Vermouth: cosa significa?

Perché vermouth? Wermut, in tedesco, significa artemisia, l’erba che caratterizza questo prodotto. Il nome sembra sia stato dato dallo stesso Carpano, come omaggio alla sua passione per Goethe.

Ma c’è probabilmente una ragione più sottile, legata a Casa Savoia, che si affannava a dimostrare che la casata discendesse dal Re Ottone II di Sassonia. Poter dare un nome teutonico a un prodotto simbolo del Piemonte, significava sancire ulteriormente il legame con la Germania.

Sulla grafia – vermut, vermouth, vermuth – viene invece in aiuto la “Monografia sul Vermouth di Torino”, scritta da Arnaldo Strucchi nel 1907, che rese il vermouth un affare nazionale. Da allora, è la grafia più utilizzata.

Ben presto, il vermouth è diventato grande protagonista della miscelazione. Molti dei cocktail più famosi non potrebbero esistere senza. Basta pensare al Martini Cocktail, al Negroni, all’Americano, al Manhattan. Tutte miscele che escono esaltate dall’equilibrio dolceamaro e speziato conferito dal vermouth giusto. L’importante è che la bottiglia sia conservata correttamente: è pur sempre un vino, e dunque una volta aperto va mantenuto in frigo, e non a prendere polvere su uno scaffale.

 

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