L’antico rito del polentone
- Redazione Artigiano in Fiera
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Cos’è il polentone? Come dice il nome una grande polenta, stesa su assi di legno e condita con funghi e formaggio. Ma soprattutto è la fine della Quaresima: è celebrato nella prima domenica dopo Pasqua che, di solito, coincideva con l’avvento della bella stagione.
Oggi come allora il polentone si festeggia con un rito codificato da quasi un secolo che ha un protagonista ben preciso: un gigantesco paiolo di rame. La sua storia racconta l’epoca dei calderai che giravano le piazze offrendosi di aggiustare e stagnare le pentole e i paioli. Appena terminata la seconda guerra, nel freddo inverno del 1948, due calderai giunsero a Bubbio. Il freddo li bloccò qui più a lungo del previsto: allora furono accolti e ospitati dalle famiglie del paese. Per ringraziarli della loro generosità, decisero di donare alla comunità un grande calderone in rame che, a peso pieno, arriva fino a 6 quintali. Oggi come allora in questo paiolo una volta l’anno si prepara il polentone. Gli ingredienti sono due: l’acqua (che i cuochi regolano in base al tempo e all’esperienza) e la farina, di mais ottofile, macinata a pietra e da mais coltivato da agricoltori bobbiesi per l’occasione. L’acqua viene scaldata dal mattina, in modo che intorno all’una inizi a bollire e possa essere scodellata in genere verso le cinque del pomeriggio.
Il fuoco è ottenuto da rovere stagionato almeno un anno, un particolare importante per la perfetta riuscita del polentone. Si alternano nel mescolarlo 8 cuochi (suddivisi in 2 squadre da 4) che devono fare attenzione perché non si attacchi al fondo. Lo svuotamento è fatto con un argano a mano, in un colpo solo: la polenta si adagia su un tagliere di due metri di lunghezza. Una volta svuotata la polenta viene benedetta dal parroco a ricordare come questo sia il cibo contadino per eccellenza. Nel bene e nel male. Questa è madre e matrigna: ha sostenuto generazioni di abitanti del Nord Italia (non per niente un appellativo dispregiativo dei veneti, grandi consumatori di polenta, era per l’appunto “polentini”), ma ne ha portati via tanti con la pellagra (una forma di avitaminosi capace di condurre alla pazzia e alla morte) malattia del monofagismo e della povertà. La pellagra, le cui dimensioni epidemiche furono ben descritte da una serie di indagini seguite all’inchiesta Jacini, fu completamente sconfitta solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, dal benessere più che dalle medicine. A Bubbio, nel weekend dopo Pasqua, la polenta si celebra però nella sua veste d’oro, più splendente, di cibo anche della domenica e della festa che oggi non viene disdegnato neppure dai grandi chef.
L’acme della cerimonia è quando la polenta è pronta e viene versata. Quattro uomini per lato sollevano il tagliere, applaudito dalla folla riunita, il prete benedice la polenta. Fin qui la poesia. Poi c’è l’assaggio, che è fatto su piatti da acquistare nell’apposito banco (e volendo si possono avere anche quelli speciali, da collezione). Insieme alla polenta vengono distribuite la frittata con uova e cipolle (secondo una ricetta tramandata da generazioni tra le famiglie di cuochi e che ogni anno necessita di 330 dozzine di uova e 150 chili di cipolle) e il sugo con funghi porcini e salsiccia (ma i più accorti sanno che sarà buonissima il giorno dopo con la robiola fermentata nell’alcol che qui chiamano bruss).
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